Nella planetaria metto le uova e lo zucchero, lavoro sino a che si crea una crema soffice.
Aggiungo in un sol colpo la farina rigorosamente setacciata con il lievito ed il pizzico di sale e ben amalgamato il cacao. Importante che il cacao non faccia grumi, io lo setaccio con la farina così risolvo il problema.
Lavoro un paio di minuti in modo che il tutto sia ben amalgamato.
Nel frattempo scaldo il latte in un pentolino, quando è quasi a bollore unisco il burro a pezzi e, con la frusta, lo faccio sciogliere e riporto a bollore il latte.
Attraverso il tubo alimentatore unisco lentamente il latte col burro lavorando lentamente per non smontare il composto. Lavoro ancora qualche minuto per avere la consistenza a nastro.
Verso il composto nel Fornetto Versilia rigorosamente imburrato ed infarinato.
Ricordate di eliminare tutta la farina in eccesso
o diversamente la "mangiate" con la torta,
e non è per nulla piacevole il gusto di farina sulla vostra bella fetta di torta!
Metto sul fornello, con lo spargifiamma, sul fuoco più piccolo, i primi 8-10 minuti a fiamma alta poi 45 minuti a fuoco basso.
!!! Mai sollevare il coperchio !!!
Al trascorrere dei 45 minuti verifico la perfetta cottura infilando uno stecco da spiedino direttamente attraverso i fori del coperchio e se ne esce completamente asciutto la nostra torta è pronta, altrimenti aspetto ancora qualche minuto.
Importante centrare lo spargifiamma sul fornello
per evitare una cottura asimmetrica del dolce.
Lascio chiuso il Fornetto ancora per un ora a fuoco spento,
e non vi dico la penitenza di non poter vedere
la ciambella che sta sprigionando questo profumo senza precedenti;
e magicamente la cucina non ha raggiunto i quaranta gradi
benché siamo ancora in estate!!
!!Magico Fornetto Versilia!!
Una volta trascorsa l'ora tolgo la magica ciambella dal Fornetto
e la metto a raffreddare sulla gratella,
poi ad ognuno i suoi vizi:
zucchero a velo, panna montata,
crema di nocciole come farcitura centrale o confettura di albicocche,...
Io vorrei tagliarla in dodici fette ed ognuna guarnirla in modo diverso
ma non posso assaggiarle tutte!
...o forse sì?!
Fra una fetta e l'altra, finisco di leggere questo libro.
C'è un capitolo più di tutti che mi è piaciuto, racconta una storia,
la storia vera di Mina e Piero, una storia come tante, una storia come nessuna,
la vita e la morte di una persona,
il modo di porsi davanti alla vita ed alla morte, momenti particolari, anomali, inusuali.
La dignità, la volontà di scegliere senza giudizio degli altri,
il bisogno che gli altri capiscano le nostre scelte senza giudicarle,
la possibilità di arrendersi ad un certo punto,
volendo essere visti ancora per quello che siamo e siamo sempre stati:
umani
Piero
e Mina
Per
me forse è una cosa un po' insolita,
ma vorrei raccontare
una storia d'amore che mi è entrata dentro, e
non è uscita più.
Come capita alle storie importanti che
leggi o che ascolti.
È
la primavera del 1973. Molto tempo fa, prima che
io nascessi.
Una ragazza in gita con la parrocchia,
una
ragazza altoatesina, si perde per le strade di Roma,
forse
la città più grande dove è mai finita nella sua vita.
Deve andare a piazza Venezia ed è a Campo de' Fiori,
e non sa la strada.
Vede un signore seduto e gli chiede
indicazioni.
Il signore porta un giacchetto a frange
e ha i capelli biondi lunghi.
Sembra un hippy. Si
alza, è altissimo, più di un metro e novanta.
E non solo
le dà l'indicazione, ma si offre di accompagnarla.
Lei
nota che zoppica e gli dice: "Non si preoccupi, vado
da sola".
"No, l'accompagno."
Così Piergiorgio Welby
e Wilhelmine Schett, detta Mina,
si dirigono insieme
verso piazza Venezia.
Nel tragitto parlano di
tutto quello di cui si può parlare in pochi minuti.
Lui
sessantottino, laico, ha girato l'Europa, scrive, dipinge.
Lei
cattolica praticante, in viaggio con la parrocchia
a Roma.
Eppure questi due mondi apparentemente così
lontani si incontrano.
Quando
si salutano, si scambiano i numeri di telefono e
gli indirizzi.
Iniziano a scriversi, a sentirsi.
Piero
non dimentica quella ragazza altoatesina, anche se
l'ha vista solo per pochi minuti. Anche Mina non l'ha
dimenticato, tanto che torna a Roma,
questa volta per
lui.
Non se ne andrà più,
perché Piero le propone subito
di vivere insieme nella casa in cui abita con
i genitori.
È un clima sereno, come succede quando sta
nascendo qualcosa di nuovo.
Dopo
due anni di convivenza, la madre coglie l'occasione di
una cena per chiedere:
"Ma perché non vi sposate?".
Piero tace, Mina guarda per terra, Piero cambia
argomento.
La sera finisce così. Quando però restano
da soli, Mina gli chiede:
"Perché non hai risposto? Non
mi vuoi sposare?".
Piero risponde:
"Non voglio
sposarti. Perché devi essere libera, libera di andartene quando
vuoi.
Quando la mia malattia mi renderà un
tronco, per te sarò solo un peso".
Piero
le aveva già spiegato di essere affetto da distrofia muscolare
progressiva,
una malattia neuro degenerativa che
colpisce i muscoli
e annienta progressivamente il
corpo.
Ma è solo allora che le confida le sue
paure:
"Io non ti devo nascondere nulla, io morirò soffocato".
Mina risponde con una semplicità disarmante,
una
semplicità profonda come il mare:
"Intanto andiamo
avanti, in fondo nessuno sa cosa riserva il
futuro.
Chi ha paura del futuro non vive il presente".
Smonta
così, con la sua semplicità, tutta la carica drammatica delle
parole di Piero,
che non voleva compromettere
la felicità di Mina.
Nel
1980 si sposano in chiesa, perché la famiglia Welby
è cattolica.
Piero arriva al matrimonio in carrozzina,
lentamente
la malattia sta bloccando tutto, braccia,
mani, gambe, fino al cuore.
Lui adorava passeggiare nei
boschi perché il padre era un cacciatore,
ma
non ce la fa più. Mina non si perde d'animo e con la
consueta semplicità gli dice:
"Se non puoi più andare a
caccia, andremo a pesca!".
Mina è così: il fatto che
una cosa non si possa più fare è per lei solo la
premessa
per farne delle altre, magari pure più belle '
e divertenti.
E così vanno a pesca, in carrozzina, con le
canne in un portacanne.
E siccome Piero ha difficoltà a
muovere le braccia,
Mina impara anche a montare l'amo:
"Non avrei mai pensato che nella vita sarei finita
a mettere vermi su un amo".
Tutte
le sventure che capitano, e ne capiteranno molte,
sembrano sempre essere occasioni - soprattutto per
Mina, ma anche per Piero -
per inventarsi un
modo altro di vivere.
Come se ogni ostacolo fosse un
passo necessario per mettere alla prova il sentimento
e
soprattutto costruire qualcosa di pieno,
non qualcosa
che sia solo un modo per portare avanti una tragedia.
Inventarsi una vita.
A causa del respiratore, Piero
non può più uscire di casa.
Quindi Mina cerca di
portargli a casa la natura che lui tanto amava.
Inventano la
fotografia di insetti, fiori, mosche...
Non fotografano
mai insetti morti, sempre vivi!
Mina aiuta Piero
a capire che il presente
è l'unica vera forma di
eternità che l'uomo può conoscere.
Piero le dirà:
"Tu
mi hai fatto fare così tante cose che non mi sono nemmeno
accorto di stare male"...
Avevano
fatto un accordo, Mina e Piero:
nel caso lui
fosse stato male, lei non l'avrebbe portato in ospedale.
Piero
credeva che sarebbe andato in coma e che sarebbe
morto.
Lei promette, ma poi viene quel terribile giorno,
arriva la dannatissima crisi respiratoria e
Mina, spaventata, non ce la fa.
Non accetta l'idea di perderlo
e chiama un'ambulanza.
Una cosa è accettare un
patto, un'altra è metterlo in atto.
Piero viene tracheotomizzato, gli
fanno un'incisione chirurgica sulla trachea
per aprire una via respiratoria alternativa a quella
naturale,
e da quel giorno vivrà attaccato a un respiratore,
immobile, a letto.
Questo respiratore artificiale è
un congegno che si gonfia e si sgonfia pompando
aria
dentro al corpo.
Il rumore cadenzato è simile al
pistone di una locomotiva.
Ma
la loro vita non si ferma. Piergiorgio leggeva tantissimo,
mangiava libri.
Ascoltava un programma di
RadioTre sui libri, Fahrenheit,
ossigeno per ogni
lettore,
e
poi diceva a Mina: "Voglio questo libro. Ma non
abbiamo soldi".
E Mina scherzava: "Ma tu sei ricco, per
questo ti ho sposato!".
In realtà vivevano con
un'indennità
di accompagnamento di 450.000 lire al mese,
oggi sarebbero più o meno 500 euro.
Piero
amava anche dipingere, quadri a olio. All'inizio per
diletto: la possibilità di creare per svagarsi, ma
man mano che la malattia procedeva faceva sempre
più
fatica nei movimenti e quindi chiedeva a Mina di
muovergli la tela sotto le mani a seconda della figura
che voleva disegnare, mentre lui teneva il pennello fermo tra le
dita. Mina gli propone allora di dipingere quadri
più piccoli:
"Anche i grandi artisti l'hanno
fatto".
E infatti le sue ultime opere sono disegni di
piccole dimensioni.
Mina sperava che così rimanesse attaccato
alla vita. Nel suo libro scrive:
"Ho veramente
esercitato un accanimento terapeutico,
ma il
mio era un accanimento terapeutico d'amore".
Nel
2001 la malattia peggiora e Piero si deprime.
Dice:
"È tutto finito. Basta". La distrofia muscolare è una
malattia che annienta il corpo lasciando però intatta, nella
maggioranza dei casi, la mente.
Quindi il malato
è assolutamente lucido e consapevole del suo decadimento
e del dolore che la malattia gli provoca.
Piero
chiede alla moglie di essere d'accordo con lui nella
richiesta di staccare il respiratore. Mina si arrabbia, non
può accettarlo, per lei è come se lui le stesse
dicendo
che vuole lasciarla. È come se lui le stesse dicendo:
"Non ti amo più". Tanto che lei gli risponde:
"Io
il divorzio non te lo do! Allora Piero, che la conosce
bene, la chiama come sempre schioccando la lingua
e le chiede di mettergli le mani attorno al collo.
"Dai
su, non fare così, ho capito benissimo
Mina ripete
spesso:
"Io ero la sua infermiera, lui il mio
psicologo,
sapeva sempre come prendermi."
Mina credeva che
fosse Piergiorgio a essere egoista, invece poi capirà
che Egoista era lei.
Inizia
allora la battaglia insieme ai Radicali per ottenere
di
poter staccare il respiratore.
Nel 2002 Piero apre
un forum,
che aggiornerà costantemente fino all'ultimo giorno
di vita.
Scrive con lo pseudonimo di Calibano,
dal personaggio della Tempesta di Shakespeare:
un mostro, un
selvaggio deforme e lentigginoso "non
onorato con forma umana". Attraverso il forum
entra in contatto con persone di tutto il mondo
che
hanno la sua stessa urgenza, che stanno vivendo la
sua stessa sofferenza.
Piero
vuole arrivare in fretta a quella che definisce una
"morte dignitosa",
facendo tutto nella legalità.
Quello
che chiede non è eutanasia, cioè la pratica che
consiste nel procurare la morte nel modo più indolore,
rapido e incruento possibile a un essere umano affetto
da una malattia inguaribile, per porre fine alla
sua sofferenza. Chiede la rinuncia all'accanimento
terapeutico,
cioè a tutte quelle tecniche mediche che servono
a sostenere artificialmente le funzioni vitali di
soggetti affetti da patologie inguaribili.
Non vuole abbreviarsi
la vita causando la morte.
Come dice il cardinale
Carlo Maria Martini:
"Evitando l'accanimento terapeutico
non si vuole procurare la morte,
ma
si accetta di non poterla impedire".
Le persone che
vengono a trovarlo, non capendolo, dicono a Mina:
"Vuole
morire perché è depresso, perché non è curato
abbastanza".
Il
22 settembre 2006 Piero decide di inviare una video-lettera
al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
È abituato ormai da tempo a usare un
sintetizzatore
vocale: sul monitor di fronte a lui ci sono delle
lettere, che lui con lo sguardo indica, e il sintetizzatore emette
le frasi che lui vuole dire.
Il suo messaggio
è il manifesto poetico della sua battaglia per
la vita:
Vita
è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul
viso,
la passeggiata notturna con un amico.
Vita è anche
la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l'amico
che ti delude.
Io non sono né un malinconico né
un maniaco depresso.
Morire mi fa orrore.
Purtroppo ciò
che mi è rimasto non è più vita,
è solo un testardo
e insensato accanimento nel mantenere attive delle
funzioni biologiche.
Sono
parole bellissime, che non riguardano neanche soltanto
la questione della bioetica.
La saggezza, il
vento tra i capelli, la donna che ami ma anche la donna
che ti lascia, l'amico che ti tradisce: qui non c'è
un uomo che concepisce la vita come un percorso di
sola felicità. "Morire mi fa orrore", dice.
Ha paura, ma
non vuole andare incontro al suicidio, non ci pensa
nemmeno.
Lui considera la sua non più vita.
Ciò
che per altri può essere considerata vita, per Piero non
lo è.
E sente che solo lui ha il diritto primo e ultimo
di decidere della sua situazione.
Sente di averne il
diritto.
La
forza di Piergiorgio Welby, così come la forza di
Beppino Englaro e di Luca Coscioni,
è quella di avere
agito nel diritto, di avere sempre rivendicato la possibilità
di scegliere. Piero avrebbe potuto andare in
Svizzera,
e una volta Mina glielo aveva proposto:
"Lì
si può, lì non c'è accanimento terapeutico, lì ti fanno addormentare".
Lui aveva risposto: "E se cade l'aereo?".
Perché
il suo obiettivo non era soltanto risolvere una
questione personale,
ma creare la possibilità di
scelta nel diritto.
Piero, Beppino, Luca potevano tranquillamente
pagare una tangente,
come già si fa negli ospedali italiani.
L'eutanasia esiste già: si paga qualcuno
per agire in silenzio.
Era stato anche proposto a
Mina: "Non lo alimenti più e nel tempo si indebolisce...".
Ecco
perché le parole di Piergiorgio Welby al presidente Napolitano
sono parole che non riguardano solo
i diritti del malato, ma i diritti di tutti in quanto italiani.
Perché ogni volta che ci si rivolge al diritto per
una propria scelta personale,
si stanno salvaguardando i
diritti di tutti.
Un
medico di Cremona, un anestesista-rianimatore, Mario
Riccio,
che aveva seguito la vicenda Welby sui
giornali e ascoltato le parole indirizzate al presidente della
Repubblica, decide di aiutare Piergiorgio.
Mancano
pochi giorni a Natale e gli dice: "Allora, ci vediamo
dopo Natale?".
Piero si sente già finito, vuole solo
che gli sia aperta quest'ultima porta e che sia per
lui un momento normale, tanto che gli risponde deciso:
"No, no, ci vediamo mercoledì, dopo i 'pacchi'
[Affari
tuoi, la
trasmissione su Raiuno]".
Il
pomeriggio di quel 20 dicembre Mina è triste.
Qualsiasi
cosa faccia per lui, gesti quotidiani che ha fatto
per tanti anni, pensa:
"Questo lo sto facendo perl'ultima
volta".
E mentre è presa dall'ansia, è frenetica.
Lui
le chiede:
"Ma sei stata felice?".
Una di quelle domande
che vorresti sempre fare alla persona che ami.
Per Mina era stata "una vita piena e felice, la migliore che
avrei potuto immaginare". Tanto che gli dice:
"Vienimi
a prendere, che faccio senza di te?".
"Tu c'hai
da fa'!" sdrammatizza lui.
È
in quel pomeriggio che Piero confessa a Mina:
"Morire
non è uno scherzo".
La sera del suo ultimo giorno
ha guardato le e-mail, ha risposto ai commenti sul
blog e poi ha cancellato tutto.
Verso le undici, Piergiorgio
si congeda dai parenti e da tre amici radicali
riuniti
al suo capezzale.
Il medico si avvicina e gli chiede:
"Procediamo?".
Per questa ultima risposta Piero
vuole usare la sua voce. Con affanno dice: "Sì".
Mina
allora gli chiede: "Lo vuoi davvero? ".
Piero sbatte le
palpebre, una sola volta, per dire: "Sì".
Morirà poco
dopo, in modo dignitoso come lui aveva chiesto
e
desiderato per tanto tempo, nel rispetto della legge.
Cattolica
come la madre di Piero, Mina vuole celebrare
l'ultimo
saluto in chiesa.
Riceve invece dal vicariato di
Roma questa risposta:
In
merito alla richiesta di esequie ecclesiastiche per il
defunto
Dott. Piergiorgio Welby, il vicariato di Roma
precisa
di non aver potuto concedere tali esequie perché,
a
differenza dei casi di suicidio nei quali si presume
la
mancanza delle condizioni di piena avvertenza e
deliberato
consenso, era nota, in quanto ripetutamente
e
pubblicamente affermata,
la volontà del Dott.Welby
di porre fine alla propria vita,
ciò che contrasta con
la dottrina cattolica.
A
rispondere così è la stessa istituzione che ha assicurato regolare
sepoltura
a Enrico De Pedis, detto Renatine,
boss tra i fondatori della banda della Magliana,
ucciso
nei pressi di Campo de' Fiori a Roma, il
2 febbraio 1990,
dai sicari inviati dai suoi "ex amici*.
Il suo nome è legato alla vicenda di Emanuela Orlandi, la ragazza
scomparsa in Vaticano nel 1983. Non ha
mai scontato un giorno di galera, Renatino, e la sua
salma si trova all'interno della cripta della basilica di
Sant'Apollinare a Roma. Venne tumulata e le
chiavi
del cancello consegnate alla vedova Carla, e solo a
lei è consentito l'accesso.
Funerali cattolici sono stati
concessi anche a dittatori come Francisco Franco e
Augusto Pinochet. Franco, instauratore in Spagna di
un regime sostenuto dalla Germania nazista e dall'Italia
fascista, responsabile della morte di oltre duecentocinquantamila
oppositori al suo governo, è venerato
come santo dalla chiesa cattolica palmariana, una
chiesa cattolica scismatica. Alla cerimonia religiosa in
onore di Pinochet, il dittatore cileno condannato
per
crimini contro l'umanità, sessantamila persone
hanno reso omaggio alla salma.
Nel marzo del
1991 Mario Iovine, uno dei fondatori del clan dei Casalesi,
è stato sepolto con cerimonia religiosa a Casal di
Principe, di notte. Al funerale del mafioso della
Sacra
corona unita, Roberto Sannolla, ucciso durante la
latitanza in Montenegro, ragazze vestite da sposa
seguivano il feretro.
Tutti
funerali religiosi, cattolici.
La chiesa dove Mina voleva
salutare per l'ultima volta Piero è rimasta invece chiusa.
Le esequie di Piergiorgio Welby sono state celebrate
con rito civile
nel piazzale antistante la chiesa
di San Giovanni Bosco a Roma.
I funerali religiosi, concessi
a dittatori e criminali,
a persone che hanno
disposto della vita degli altri, sono stati negati a
Piergiorgio Welby, un uomo giusto la cui unica colpa è
stata, dopo aver patito quarant'anni di malattia, decidere di non
voler soffrire più, di voler disporre della
propria vita.
Nel funerale sì è ricordato che Piero aveva
solo voluto smettere di soffrire,
aveva solo chiesto
un ultimo gesto d'amore.
L'amore
di Mina e Piero era iniziato a Campo de' Fiori
sotto la statua di Giordano Bruno, filosofo campano, nolano.
Ora quella statua non è più soltanto per me
la statua di un filosofo che adoro,
di un faro del pensiero.
È anche il ricordo della loro storia d'amore.
Ora
quando leggo le ultime parole di Giordano Bruno penso
a Piergiorgio Welby:
Ho
lottato, e molto:
credetti poter vincere
(ma alle membra
venne negata la forza dell'animo),
e la sorte e
la natura repressero lo studio e gli sforzi. [...]
Per quel
che mi riguarda ho fatto il possibile [...]:
non aver temuto
la morte,
non aver ceduto con fermo viso a nessun simile,
aver preferito una morte animosa a un'imbelle vita.